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[dropcap]N[/dropcap]el giugno del 1994 – esattamente dieci anni fa – avevo un ragazzo che si chiamava Marco.
Con il passare degli anni ci siamo persi di vista, poi ci siamo incontrati di nuovo, frequentati per un po’, persi di vista di nuovo. Così è la vita.
Marco è sempre stato un ragazzo strano, timido, impacciato (ero io quella che prendeva l’iniziativa, l’estroversa, la spigliata). Marco tendeva a guardare in basso, oppure in alto, su nel cielo. Ma non ti guardava mai negli occhi. Era sfuggente, ambiguo e misterioso.
Gli altri dicevano che era stronzo.
Altri ancora che era frocio.
Ma io sapevo che non era né stronzo, né frocio.
Adesso che lo rivedo, Marco non è più lui. Non lo riconosco. E contrariamente al solito è lui a prendere l’iniziativa e a salutarmi.
«Elena! Quanto tempo… come stai?»
E io guardo interdetta. Perché Marco ha lunghi capelli biondi, labbra carnose, zigomi sporgenti, il naso sfinato.
Soprattutto Marco ha le tette. Belle, anche. E fianchi abbondanti.
Marco è diventato una donna. Lo guardo con la bocca leggermente aperta, guardo il suo sorriso smagliante (neanche i denti non sono più quelli di un tempo), guardo le sue ciglia lunghe, il neo sopra il labbro che prima non c’era, la caviglia che esce con una grazia che prima non aveva da una scarpa alta ed elegante.
Nel giugno del 1994 – esattamente dieci anni fa – scoprii le gioie del sesso. O se non proprio le gioie, almeno le dinamiche. Con Marco, il mio ragazzo, ci toccavamo nelle sale buie dei cinema, mentre passavano improbabili commedie americane di successo. Tentavamo amplessi impacciati in gelide serate sulle panchine del parco. Aspettavamo con ansia che i miei o i suoi partissero per un qualche fine settimana al paese. Lo aiutavo a cercare la clitoride. Gli succhiavo il cazzo. Andavamo per preservativi, lui fuori dalla farmacia, imbarazzato, io dentro con i miei sedici anni che non li potevi fermare.
Io scoprivo il colore, il sapore e il dolore dello sperma; lui scopriva che le ragazze ci mettono un po’ prima di venire, e che «leccare abbondantemente prima dell’uso» è sempre un buon consiglio.
«Sei… donna?»
«Come mi trovi?»
«Bionda non mi piaci».
«Sono bionda solo da una settimana. Prima ero rossa».
«E…?»
«E che?»
«E com’è che sei donna?»
Nel giugno del 1994 – esattamente dieci anni fa – scoprii che se Marco non era frocio (e credetemi, non lo era) io sicuramente ero lesbica. Mi piacevano le tette. Prima le mie, poi quelle delle altre ragazze. Mi piaceva strofinarle, le mie contro quelle di un’altra. Mi piaceva baciare le labbra di una donna, mi piaceva strofinare la fica contro un’altra fica. I corpi delle donne mi piacevano molto. Mi piaceva il mio, mi piaceva quello di mia cugina, Giulia, e quello della figlia del tabaccaio, Marianna, e quello della mia migliore amica, Sonia.
Essere stata con Marco mi aveva fatto scoprire il mondo dei ragazzi. Non era brutto in sé, solo era meno affascinante, meno divertente, meno misterioso, meno coinvolgente. E si godeva molto meno. Checché se ne dica, quella piccola cosa flaccida e dura che hanno gli uomini non è tutto questo granché. Meglio Giulia, meglio Marianna, meglio Sonia.
«Ma ti piaccio così, almeno?»
«Per ora mi hai scioccato».
«Già».
«E come ti devo chiamare?»
«In che senso?»
«Non credo che ti fai chiamare Marco, no? Con quelle tette!»
«Che intendi dire? Certo che mi faccio chiamare Marco. Come dovrei farmi chiamare?»
«Uh. Cioè dici “piacere sono Marco” e cose così…?»
«Sì».
«Ah be’, scusa, pensavo che… Cioè in questi casi in genere si cambia nome, oltre che… ma sei operato? Cioè sei “donna” anche…»
«Sono completamente donna. Ma…»
«Cosa?»
«Non sono operato».
«Come?»
«È un po’ difficile da spiegare e ci vuole del tempo… ehm… fai un salto da me?»
«Stai sempre lì, sopra la ferrovia?»
«Sì, i miei sono andati a vivere al paese qualche anno fa. Vedrai, l’ho riarredata tutta…»
Nel giugno del 1994 – esattamente dieci anni fa – il mondo non era la merda che è diventato dopo. Con i miei ho rotto definitivamente, perché una figlia lesbica dichiarata – e convivente – non è la “loro” figlia. Poi ho rotto con Martina, dopo essere andate a vivere assieme, poi con Lea, che diceva di amarmi e si è sposata con un geometra, e infine con Tamara, dopo cinque anni e un mutuo in comune. Lavoro per un dentista che una o due volte al mese ci prova con me (anche se è sposato, o soprattutto perché è sposato) e devo ancora capire in che cazzo di paese devo andare per poter avere un figlio senza essere lapidata.
I treni passano sempre sotto il balcone della casa di Marco, ma non si sentono più tanto, perché ha fatto mettere i doppi vetri alle finestre. L’appartamento è delizioso, ogni stanza tinteggiata diversamente, con toni accesi e a contrasto con i mobili. Una meraviglia.
Marco mi prepara un caffè. Lo guardo muoversi con disinvoltura tra i fornelli, sui suoi tacchi alti, con la camicetta leggermente aperta a mostrare il seno florido. Lo guardo negli occhi quando si siede davanti a me, aspettando che il caffè venga su nella macchinetta.
«Allora… che vuol dire che non ti sei operato?»
«È così… io… è una storia stranissima. È iniziato a succedere tre anni fa, poco dopo l’ultima volta che ci siamo visti, alla festa di Giulia. Ho iniziato a… trasformarmi. A trasformarmi in donna. Completamente. Il mio dottore è quasi impazzito. Mi ha spedito in una clinica a Losanna per un mese. Poi me ne sono andato perché stavo diventando una cavia».
«Non ci posso credere…».
«Sono anche su Science, ho il numero da qualche parte…».
Lo guardo e penso che è una donna bellissima. Penso che adesso ci proverò con lui, in nome di quello che c’è stato tra di noi in passato, dei nostri giochetti, della nostra timida e avventurosa scoperta del sesso.
Penso che gli sbottonerò quella maledetta camicetta, che terrò i seni nelle mie mani, sfilandogli il reggiseno. Penso che lo leccherò tutto, qui in cucina, su questo tavolo. Che andrò con la mia lingua ad investigare da vicino questa misteriosa trasformazione, che indagherò sulla presenza o meno della clitoride, della fica e credo anche del buco del culo.
Credo e spero che Marco sia rimasto eterosessuale nell’anima, che mi possa e sappia amare come l’uomo che è stato. Che risponda al mio tocco, che frema di passione per il mio corpo, per le mie tette, per la mia fica. Che scopra con gioia i piercing che ho fatto in questi anni di abbandoni. Che sappia ancora leccarmi in mezzo alle gambe come gli avevo insegnato a suo tempo.
Perché se così fosse, se io avessi veramente ritrovato il mio vecchio fidanzato, perfettamente maschio, in un corpo da donna, allora non potrei che invocare il miracolo, l’assoluto, il divino.
E pensare che ne sia valsa la pena di aspettare, dal 1994 ad oggi.
* * *
Questo racconto è stato pubblicato in origine sulla rivista «X Comics», nel 2004, sotto il nome d’arte di “Luciana Del Re”. È stato successivamente raccolto nel libro L’indipendenza della vagina (Coniglio Editore, 2005).