Se fai fumetti, prima o poi ti sarai chiesto: “Ma com’è possibile che quel fumetto, disegnato così male, sia stato pubblicato mentre io, che so disegnare molto meglio, faccio fatica a trovare spazio?”
La verità è che non è una questione di giustizia o ingiustizia. È una questione di comunicazione.
Il disegno “bello”, quello curato, con anatomie perfette e prospettive impeccabili, è un linguaggio che parla soprattutto a chi il fumetto lo conosce bene. Richiede competenze interpretative: saper riconoscere lo stile, le citazioni, la qualità tecnica. Per il pubblico generalista, invece, tutta questa raffinatezza può trasformarsi in una barriera. Non è che non la apprezzi: è che non la capisce fino in fondo. E quando non capisci, ti senti escluso.
Il disegno “brutto”, o meglio semplice, essenziale, a volte persino rozzo, fa invece l’opposto: abbassa le difese. Comunica subito accessibilità, dice al lettore: “Questo puoi leggerlo anche tu, non serve un manuale per capirlo.” E infatti i successi più trasversali — dal Diario di una schiappa a Sio o PeraToons, fino ai webcomic virali — puntano proprio su questo tipo di immediatezza.
Quindi non è che chi disegna “peggio” viene premiato perché meno bravo. Viene premiato perché riesce a parlare a più persone. L’editore, che deve vendere libri, lo sa bene: se il target è ampio e generalista, meglio scegliere uno stile che non metta distanza.
Il punto per te, come autore, è capire questa dinamica. Non vuol dire che devi “sporcarti” il tratto o disegnare apposta peggio. Significa renderti conto che il mercato non valuta la bravura tecnica in sé, ma la capacità di farsi leggere. E questa, a volte, passa anche da un disegno volutamente semplice.
Morale: il disegno bello ti fa ammirare, il disegno brutto ti fa leggere.