[dropcap]S[/dropcap]andro Pertini era nato nel 1896. Aveva quindi quasi settantacinque anni quando – Presidente della Camera – raggiunse Belgrado su un aereo dell’Aviazione Militare Italiana. I suoi viaggi in Jugoslavia erano stati frequenti, sia nel quadro delle ottime relazioni bilaterali tra i due Paesi, sia in quelli – meno buoni – dell’organizzazione socialista internazionale.
A Belgrado si incontrò con uomini di affari e dirigenti di vari ministeri. Alla sera è ospite del Maresciallo Tito. Nato nel 1892 Tito era alle soglie degli ottant’anni. Conosceva Pertini dai tempi della lotta antifascista degli anni Venti. Non erano mai stati veramente amici, ma tra i due era cresciuta una stima reciproca nel corso degli anni. Pertini era stato molte volte ospite di Tito – al quale rinfacciava una certa rigidità, mal compensata da atteggiamenti da gran viveur. Dal canto suo Tito replicava all’anziano socialista italiano di essere un prete rosso, uno che viveva di poco e che non si sapeva godere la vita. A quel punto uno si accendeva il sigaro e l’altro la pipa.
Ci sono dunque Tito e Pertini a cena nella villa del Maresciallo, in una zona periferica e residenziale di Belgrado. Mangiano soli e si scambiano osservazioni da vecchi in un italiano stentato e maccheronico condito da termini francesi e inglesi. I camerieri discretamente fanno sparire le bottiglie di rakija e le rimpiazzano con bottiglie piene solo a metà. Immaginiamo i loro discorsi, prima – da sobri – improntati a scambi e osservazioni politiche internazionali, e i russi questo e gli americani quello; poi – man mano che la serata avanza – iniziano a ricordare l’eroico passato che li aveva visti entrambi capi militari della Resistenza antifascista ed eroi della Liberazione nazionale. E quindi: io ho ammazzato tre tedeschi a mani nude, io ho fatto saltare un treno blindato con un sigaro; io ho liberato Milano da solo, io ho ripulito Belgrado dai nazisti con gli occhi bendati.
Ironia della sorte entrambi si erano salvati per miracolo dal nemico, Tito era scampato a un lancio di paracadutisti di fronte al suo rifugio grazie al sacrificio del suo cane, Pertini in attesa di essere fucilato in carcere era stato salvato da un commando gappista.
Bevono, parlano, fumano e fanno tardi. A una certa ora della notte, non troppo avanzata immaginiamo, che Pertini ha fama di andare a letto con le galline, arriva un altro ospite. Fa il suo ingresso infatti Fidel Castro, che ormai da un paio di settimane stava girando in lungo e in largo la Jugoslavia a bordo di una vettura aperta, investigando i metodi di trattamento ortofrutticolo locali, sempre alla ricerca di un valido sistema per sfamare il suo popolo.
Fidel Castro piomba in mezzo al dopo cena di Tito e Pertini. Immaginate la scena: Tito ottantenne, Pertini settantacinquenne, entrambi ex partigiani. Arriva Castro, divisa militare verde oliva, barba nera, sigaro in bocca, una bottiglia di rakija in mano. Ha quarantaquattro anni: un ragazzino. La mascotte in quel gruppetto di guerriglieri.
Sembra una barzelletta, invece è vero: ci sono Tito, Pertini e Castro a cena insieme. Bevono tutti e fumano come dei mantici. Nella stanza attigua segretari, portaborse, attendenti e spie. Ma lì, attorno al tavolo, tre simboli del Novecento. Liberatori delle proprie patrie. Rivoluzionari. Partigiani e guerriglieri. È il 1971, il mondo freme di tensioni opposte. C’è la guerra fredda. Gli americani hanno invaso il Vietnam. Il blocco sovietico si è chiuso in se stesso con l’arrivo di Breznev.
Questa cena, assente dalla storiografia ufficiale, ma riportata nei diari del fedele segretario di Pertini, è una vecchia fotografia sbiadita, uno scatto in bianco e nero di uomini che – nel bene e nel male – hanno combattuto e vinto, ognuno a modo suo, in un mondo che era oppresso e annientato: i fascisti in Italia, i nazisti in Jugoslavia, la dittatura di Batista a Cuba. E poi ditemi davvero che non sembra una barzelletta: ci sono Tito, Pertini e Castro a cena insieme…
Non sappiamo di cosa hanno parlato, se delle tette di Sofia Loren o del movimento dei paesi non allineati. Sappiamo però qual è stato l’ultimo argomento di conversazione, perché Castro lo ha poi scritto in un editoriale sul Granma.
Le vacche da latte. Quelle vere.
Castro ha quest’ossessione, che sulla sua isola devono esserci le vacche da latte. Ma mica vacche normali, devono essere super vacche da latte. Castro – con l’obiettivo di rendere l’isola autosufficiente – negli anni si è cimentato nella zootecnia. Ma non c’è niente da fare, Cuba è inospitale per le vacche. Castro interroga gli altri due sulle vacche loro, italiane e jugoslave. Meglio delle cubane, a suo dire. E complice la rakija ecco che da Pertini (avvocato) e da Tito (operaio metallurgico) arrivano consigli di tutti i generi, come se non avessero fatto altro che lavorare in fattoria. Castro, anche se ubriaco, scrive tutto e prende appunti, è ancora giovane e ingenuo, e quei due sono delle leggende viventi della Rivoluzione: diranno sicuramente il vero.
Così finisce la nostra storia, non ci sono né donnine né mazzette a condire il sugo, ma Castro con le sue vacche da latte. Il giorno dopo Pertini riparte per Roma con gli imprenditori che aveva accompagnato (tra cui Max Bunker, autore di Alan Ford e il Gruppo Tnt, il fumetto più popolare in Jugoslavia allora e oggi). Tempo una settimana e sul Granma esce un articolo di Castro che riporta le deliranti dichiarazioni di Pertini e Tito sulle vacche da latte. Le riporta come perle di saggezza.
Nessuno fino ad oggi ha mai avuto il coraggio di smentirle.