L’America dimenticata di William March

Nel 2010 ho curato per l’editore Castelvecchi una nuova edizione di Compagnia K, il capolavoro di William March. La ripropongo qui, con solo qualche piccola modifica. Buona lettura.

William March nel 1919.

[dropcap]N[/dropcap]el corso della sua vita adulta William March soffrì spesso di malattie psicosomatiche legate agli occhi e alla gola. Nel 1927, quando si trovava a Point Clean, nella Contea di Baldwin, trascorse sei settimane in un ospedale psichiatrico, per una grave forma di allucinazione. Più tardi, nel 1929, fu ricoverato a New York dopo aver tentato di praticarsi una tracheotomia. Non riusciva a respirare e cadde a terra, solo e in preda agli spasmi, nella sua camera d’albergo. March era un veterano della Prima guerra mondiale, un reduce che non amava parlare della sua esperienza al fronte, ma che, se proprio doveva, raccontava di quando un attacco con i gas lo sorprese senza maschera, di come i polmoni ormai gli funzionavano male e di come avesse poco da vivere.

Era perseguitato da un incubo ricorrente nel quale un giovane soldato tedesco gli si parava di fronte, nella bruma dell’alba, sul fondo di una trincea… March lo colpiva con la baionetta, un colpo netto a trapassare la gola, poi lo osservava morire, senza potere o volere fare niente.

L’episodio con il giovane tedesco gli era accaduto durante la battaglia di Saint-Mihiel, nel settembre del 1918, mentre gli americani lasciavano sul terreno settemila morti. L’episodio con i gas invece non era mai avvenuto, i polmoni di March stavano benissimo e non aveva affatto poco da vivere. Come tutti i reduci March aveva affrontato l’inferno, aveva visto i suoi amici morire, aveva ucciso egli stesso decine di uomini che combattevano dalla parte avversa.

Come tutti i reduci March soffrì tutta la vita: il peso schiacciante di essere un sopravvissuto, il senso di colpa per non essere morto anche lui a Saint-Mihiel o a Soissons, dove la sua compagnia fu annientata. Per un periodo fu davvero convinto che i suoi polmoni stessero collassando: trovava immorale che così non fosse.

Cresciuto nella povertà più assoluta nei dintorni di Mobile, Alabama, secondo di undici tra fratelli e sorelle, il padre operaio socialista a cottimo nell’industria del legname, alcolizzato, appassionato di poesia, ammiratore di Edgar Allan Poe, oratore d’eccellenza in locande e taverne. Il futuro William March (era stato battezzato con il nome di William Edward Campbell, mentre March era il cognome della madre Susan) cresce nelle classi uniche, così comuni a quei tempi nella provincia statunitense. Il ragazzo promette bene, è sveglio, il primo della classe, ma a quattordici anni la famiglia insegue il sogno del legname, e si trasferisce a Lockhart, precludendogli di fatto l’accesso alle scuole superiori. Appena adolescente trova lavoro nell’ufficio di una segheria, un giovane colletto bianco, anzi, il più giovane di tutti: aveva quindici anni, e trascriveva i libri contabili in doppia, tripla copia, penna e calamaio.

Il giovane March non ha un posto nella storia, ma lo cerca con testardaggine: a diciasette anni è assistente in uno studio legale di Mobile, a vent’anni ha messo da parte abbastanza soldi per poter frequentare le superiori nell’unica scuola che accetta i fuori quota, nell’Indiana. Nel 1916 si iscrive alla facoltà di Legge dell’Università dell’Alabama, ma fallisce la Laurea. Nella biografia The Two Worlds of William March, l’autore Roy Simmonds riconosce che la parabola di March era così comune a quella generazione. Piena di energie e di speranze, ma disperatamente povera e senza sbocchi. La generazione che si arruolò in massa nel 1917, quando gli Stati Uniti entrarono nella Prima guerra mondiale: una generazione così desiderosa di dimostrare il suo valore, da finire falciata nel carnaio europeo.

William March finisce nel corpo dei Marines. Il 7 gennaio del 1918, dopo sei mesi di addestramento, si imbarca per la Francia. Questo giovane appassionato di poesia, aspirante avvocato, con un passato da contabile… questo figlio povero dell’America minore, puritana, devota e passabilmente socialista, scopre di essere anche un buon soldato. Nominato sergente della Compagnia F, Secondo battaglione del Quinto Marines, ha il suo battesimo del fuoco a Verdun, battaglia della foresta di Belleau. Gli scontri durano quasi un mese. A Vaux gli americani scoprono i gas che i tedeschi usano in maniera intensiva. March guida i suoi uomini in una serie di assalti tesi a riconquistare Bouresches, persa dai francesi all’inizio dell’offensiva. Viene ferito alla testa e a una spalla. Dopo la convalescenza torna al fronte in tempo per l’offensiva di Soissons e poi Saint-Mihiel e Blanc Mont, dove viene ferito ancora. Decorato più volte viene smobilitato nel 1919. Soffre di problemi psichici, fatica a tornare alla vita civile.

La sua esperienza bellica costituirà il cuore di Compagnia K, il libro che Graham Greene, in una recensione uscita sulla rivista «Spectator», definirà «il più importante libro mai scritto sulla Prima guerra mondiale». Ammirato da Hemingway e fonte di ispirazione per Mattatoio n. 5 e Comma 22, Compagnia K avrà una storia sofferta, che affonda i suoi artigli nei disturbi post traumatici di March, negli incubi che lo perseguiteranno per tutta la vita, nella sua ritrosia quasi patologica rispetto alla mondanità e alla vita civile.

Tornato dal fronte March trova lavoro come assistente di John Waterman, un imprenditore nel settore dei trasporti. Nel corso di pochi anni costruisce una carriera che lo porterà a diventare vicepresidente della società. Si sposta per lavoro in tutto il Paese, ma non se ne dà peso, della sua famiglia ha quasi perso le tracce e non intende averne una sua. Negli anni Venti è in Europa e assiste al crescente successo dei fascismi. Legge le sue poesie in pubblico in piccoli locali ad Amburgo, Brema e Parigi. Nel 1928 torna a New York, gli incubi della guerra continuano a perseguitarlo, si appassiona alla psicologia, legge Freud, Jung e soprattutto Adler, dal quale sembra trarre un qualche tipo di conforto. Scrive, pubblica racconti sulla rivista Forum, si iscrive a un corso di scrittura presso la Columbia University e infine – nel 1933 – pubblica presso l’editore di William Faulkner, Smith & Haas, il suo primo libro, Company K. Il riscontro della critica è immediato. Greene lo esalta, il New York Times pubblica una recensione entusiastica in prima pagina, Christopher Morley ne parla come di un genio. Ma la storia della Compagnia K non è propriamente la storia di un successo editoriale. Il punto di vista antiretorico, la crudezza delle descrizioni, l’assoluta assenza di eroismo rendono il libro immediatamente inviso alle associazioni di reduci e veterani, la Legione americana ne proclama il boicottaggio, il Partito fascista americano arriva a minacciare di morte il pluridecorato March.

Le piccole storie degli uomini della Compagnia K sono raccontate in centoventitré capitoli, montati senza una precisa logica temporale. March scrive con compassione eppure non tralascia nessuno degli aspetti più deleteri della guerra realizzando un libro universale, dedicato a tutti i soldati di tutti i conflitti, a tutti i ragazzi morti senza un perché.

Nel 1940 Hemingway cura un’antologia dei migliori racconti bellici. Vorrebbe inserire March, ma l’editore lo censura. March è antiamericano, anti-guerra, un proto pacifista, peggio: un socialista. Hemingway abbassa la testa, ma scrive all’editore che vorrebbe vedere il racconto di March inserito in una futura ristampa, dopo la fine della guerra lampo dei tedeschi. Non accadrà mai.

Descrivendo i suoi demoni, March è riuscito in parte a placarli. Nel 1934 inizia a scrivere la serie di libri dedicati all’immaginaria Pearl County, cittadina della provincia americana. I romanzi, meno crudi e maggiormente letterari rispetto a Compagnia K, raccolgono un successo crescente. Nel 1939, al quarto libro, March può ormai vivere con la sua attività di scrittore e nel 1943 conclude, con il volume The Looking Glass, la trilogia di Pearl County. Il libro è un enorme successo commerciale e di critica.

Tormentato dagli incubi, riemersi con sempre più insistenza assieme all’impegno bellico statunitense nella Seconda guerra mondiale, March non riesce più a scrivere. Gli viene diagnosticato un esaurimento nervoso e torna a vivere a Mobile, in Alabama. La vita della provincia ha su di lui un effetto paralizzante, e di quegli anni non si sa molto sull’attività di March, tranne che inizia a scrivere favole per bambini. Alla fine degli anni Quaranta torna a New York per un viaggio di affari e conosce casualmente il gallerista Klaus Perls, un ebreo tedesco di Berlino, fuggito dai nazisti alla fine degli anni Trenta. L’incontro si dimostrerà provvidenziale. Lì dove né la scrittura, né la psichiatria riuscirono, potè l’arte visiva. Perls, abituato a trattare con personalità creative mostrò verso i problemi di March un’accettazione che lo scrittore non aveva trovato da nessuna altra parte. March scoprì il mondo paranoide e schizofrenico di Soutine e ne rimase affascinato. Si riconosceva nelle opere e nelle tematiche dell’artista di origine lituana e ne divenne anche collezionista, comprando anche opere di Picasso, Rouault e Glasco.

Nel 1950 March si trasferì in quella che diventerà la sua ultima dimora: nel quartiere francese di New Orleans. Il ragazzo americano aveva percorso un lungo viaggio nel dolore e nella sofferenza fino ad accettare definitivamente il proprio status di artista; fino ad arrivare alla sublimazione nella sua arte, nella scrittura. Nel 1952 pubblica October Island e nel 1954 il romanzo The Bad Seed (Il seme cattivo). Il 25 marzo March è colpito da infarto, viene ricoverato e, dopo tre settimane, dimesso. Gli incubi della guerra sono ancora al loro posto, assieme alla persistente sensazione di soffocamento, assieme al soldato tedesco che aveva ucciso a Saint-Mihiel.

The Bad Seed, che March aveva scritto per far fronte alle spese crescenti e che considerava un’opera minore, venderà più di un milione di copie, diventando anche un film, diretto da Mervin LeRoy. March non godrà di questo successo: un secondo infarto lo coglie la notte del 15 maggio.

Si spegne nel sonno lasciando un breve testo nella macchina da scrivere, Povero pellegrino, povero straniero: «Arriva un momento nella vita di tutti in cui ci rendiamo conto che la morte ci aspetta, a noi e agli altri, e che non ci saranno né preferenze né esenzioni. È in quell’infelice attimo che sappiamo che la vita è un’avventura su cui è scritta la parola fine, e non un susseguirsi infinito di luminose giornate. A volte questa consapevolezza si accompagna con la rabbia per tale ingiustizia, a volte con la paura che secca la bocca e serra gli occhi per un istante, a volte con servile condiscendenza, con una acquiescenza più terribile della paura stessa. La consapevolezza che la mia fine era vicina arrivò con dolore, e successivamente meraviglia. Con un convenzionale infarto, dal quale, mi è stato detto, mi sono ripreso benissimo».

William March è stato uno dei più notevoli autori della Generazione perduta, assieme a Hemingway, Fitzgerald, Steinbeck e Dos Passos. E anche il più sottovalutato. Di lui Alistair Cooke scrisse come del «genio dimenticato del nostro tempo», mentre l’autorevole critico García Villa lo definì, «il più grande scrittore di storie brevi che gli Stati Uniti abbiano mai prodotto». A lui si sono ispirati, tra gli altri, Kurt Vonnegut jr e Thomas Pynchon. Company K fu tra i libri simbolo del movimento pacifista internazionale. Fu un uomo gentile e solitario, scosso dai suoi demoni interiori. Quanto di lui come persona, come essere umano, sia rimasto sul fronte e mai tornato a casa, lo possiamo solo immaginare. Ma l’immenso scrittore che è poi diventato siamo ancora in grado di scoprirlo.