«Sei pazzo, fondi una casa editrice?», una conversazione con Nicola Pesce

Nicola Pesce è uno scrittore per vocazione e imprenditore per mestiere, fortunatamente prestato all’editoria, dove ha fondato l’omonima casa editrice. Agli albori della sua avventura professionale curò un’antologia con il nom de plume di Pedro Adelante, E il cagnolino rise, ove fui incluso.

Abbiamo avuto una bella e densa conversazione sul fare i libri, sul fare editoria (che è cosa diversa dal fare i libri) e su quello che potrebbe o potrebbe non fare chi oggi volesse cimentarsi in questo settore, su un fronte o sull’altro.

Buona lettura!

Hai appena annunciato Ivvi, una nuova casa editrice. Di che si tratta, è un progetto di book-on-demand? Ma soprattutto: dove trovi il tempo? La tua casa editrice, la Edizioni NPE, sforna libri a raffica…!

Caro Dario, innanzitutto grazie per questa intervista, è sempre un piacere ritrovarti.

Come sai, sono un editore che ha fatto letteralmente tutta la gavetta, dall’essere il tuttofare che scriveva i contenuti, impaginava i libri e stampava le riviste di notte (perché di giorno ero ahimè studente prima al liceo e poi all’università), che portava i pacchi e spazzava per terra in ufficio, all’essere una sorta di primo motore immobile per Edizioni NPE.

Adesso infatti la macchina è completamente rodata e il mio lavoro consiste nell’indicarle costantemente una direzione. I miei collaboratori conoscono ormai molto bene i propri compiti e il 90% del tempo possono fare a meno di me.

Come si suol dire, da qualche hanno ho smesso di lavorare “nella” casa editrice e ho cominciato a lavorare “alla” casa editrice.

Prima ho dovuto imparare tutto da me, senza guide, poi l’ho insegnato ai miei amici più cari, e adesso loro sono una valente casa editrice!

Ma sentivo il bisogno di rifare tutta la gavetta. È agli inizi che si imparano le cose che davvero ci distingueranno.

Quando ero piccolo lessi I fratelli Karamazov. Non posso avere la pretesa di averlo compreso appieno a quella età. Viene il momento in cui bisogna rileggerlo.

Ecco, IVVI Editore è innanzitutto il mio desiderio di riguardare – con l’esperienza che ho oggi – tutto il percorso: faccio di nuovo i pacchi, impagino e correggo bozze di nuovo e così via.

IVVI è – come mostra il logo palindromo e specchiato – un ribaltamento del concetto di editore. Per me da adesso gli editori sono gli autori. Io faccio un passo indietro e pubblico tutto quello che mi propongono. Ovviamente non chiedo soldi, anzi, investo su di tutti gli autori che ci scrivono facendo impaginare il libro, fare la copertina, metterlo disponibile in tutte le librerie d’Italia e sui principali siti. Starà agli autori sapersi promuovere e fare sì che lettori di tutta la penisola comprino le loro opere. I tuoi lettori potranno farsi un giro su ivvi.it per saperne di più!

Dove trovo il tempo? Se sapessi le quantità di altre cose che faccio mi prenderesti in giro! Diciamo che le case editrici occupano il 10% del mio tempo.

Ti ho conosciuto che scrivevi, ma volevi fare anche l’editore. Fast forward di circa quindici anni, e ti ritrovo che scrivi e fai l’editore. In mezzo so che ci sono state avventure travagliate di ogni genere, ma sembra che il cuore sia rimasto lo stesso. È tutto vero?

Purtroppo e per fortuna la mia vita è stata estremamente difficile. Sorvolo sulla mia infanzia ma basti sapere che, essendo affetto dalla sindrome di Asperger, non me la sono spassata né lì, né in adolescenza. Poi infinite gravi vicissitudini familiari.

Alla fine ho imparato a interagire con le persone, a scrivere contratti precisi, a osservare sempre ogni cosa con un occhio contemporaneamente appassionato e distaccato, folle e calcolatore.

Hegel parlava dell’idea in sé, che poi esce fuori di sé e infine ritorna in sé trovando una sintesi di tutto quello che le è accaduto mentre era fuori, senza perdere la propria identità.

Amavo scrivere, amavo pubblicare, poi la vita mi ha travolto per quindici anni, distruggendomi psicologicamente fino a farmi sentire ridicolo quando prendevo una penna in mano per scrivere qualcosa. Non ho poggiato la penna su un foglio per dodici anni.Alla fine ho deciso di re-impossessarmi di me stesso. Voglio fare tutte le cose che sogno e spenderò tutta la mia vita per questo. Solo così riuscirò a non sentirmi un fallimento su tutta la linea.

Il cuore non è rimasto lo stesso, adesso è tutto ammaccato. Non so se si riprenderà mai. Cercherò di averne cura.

Apriamo una parentesi dedicata al Nicola scrittore. Mi trattengo a questo punto dal chiederti dove trovi il tempo, ma mi incuriosisce il metodo. Sei uno scrittore compulsivo, ti abbandoni a lunghi «corpo a corpo» col wordprocessor creando qualcosa che non sai come va a finire, oppure programmi le scalette di quello che devi scrivere e procedi con un programma serrato? E, nota a margine, visto che ti dichiari «vintage», quale strumento prediligi per la scrittura?

Quando chiudo gli occhi per dormire parte un caleidoscopio di sogni che ha dell’incredibile. A volte sogno interi film con un inizio, uno svolgimento e una fine. O persino sogno di essere al cinema a vederli, o che un amico mi racconti una trama al tavolino di un bar. Follia totale.

È lo stesso quando mi metto a scrivere. So che in qualche modo c’entro io, ma ogni volta non so cosa succederà nella frase dopo, si svolge tutto indipendentemente da me.

Infatti la cosa che mi hanno detto più spesso del mio primo libro è che ogni volta non ci si aspetta assolutamente quello che verrà dopo, talvolta un vero e proprio cambio di genere letterario. Quindi mai scalette, non saprei proprio cosa farci.

Scrivo in due modi totalmente diversi: con la penna, spesso color porpora, su un vecchio quaderno ingiallito, lentamente, oppure al computer, a velocità supersonica cercando disperatamente di seguire il filo dei miei pensieri.

E ne escono fuori due stili molto diversi. Il primo attento a non divagare, a non lasciarsi andare nelle descrizioni, il secondo totalmente libero da blocchi di qualunque tipo, che crea storie nelle storie e divaga anche venti pagine su un personaggio secondario.

Non so se sia una cosa buona, eh!

La cosa carina dello stile a penna è che si può vedere sui miei quaderni come io scriva in ordine e non ci sia mai una correzione. Non credo che il Nicola che corregge sarebbe tanto meglio del Nicola che scrive, e così lascio sempre “le cose come stanno”.

Temo di essere molto prolifico, anche se mi pare di non scrivere mai. Se scrivo un paio di ore a settimana è anche tanto – proprio per il mio eccessivo numero di impegni – ma ne vengono fuori comunque tre romanzi all’anno. Vorrei in effetti più tempo per scrivere, ma poi sarebbe una tragedia la quantità di testi prodotti!

Questa è d’obbligo, perché mi hai segnalato Le cose come stanno su Prime Video, il primo film che hai scritto, e mi sono ricordato che me ne parlasti forse una decina di anni fa. È quello, giusto? Prime video purtroppo il film non me lo fa vedere all’estero quindi, in attesa di tornare da dove il lockdown mi ha colto, dimmi se l’attesa è valsa la pena. E soprattutto: qual è la lezione che hai tratto dallo scrivere per lo schermo anziché per la carta?

Nel vedere realizzato il film tratto dal mio libro ho fatto – come sempre – il contrario di quello che avrebbe fatto chiunque. Ho ceduto i diritti cinematografici per una cifra simbolica. Ero già grato che ne facessero un film. Ho dato il diritto di fare qualsiasi cosa e taglio e modifica al regista. Mi sono soltanto riservato di togliere il mio nome dai titoli di testa e di coda, nel caso in cui non mi fosse piaciuto il risultato. Ma poi non ce n’è stato motivo.

Non sono mai andato nemmeno a passare nei pressi del set. Avevo troppa paura di vedere violentata la mia opera. La violentassero, ma senza di me. Solo due volte in un mese di riprese sono andato a cena con gli attori che avevano qualche domanda sui personaggi. E anche lì, ho cercato di dire loro che loro dovevano interpretarli così come li avevano sentiti loro, non come glielo dicevo io (tranne segnalazioni di piccoli fraintendimenti).

Per me era già assurdo vedere quegli attori (tutti bravissimi tra l’altro!) con le loro facce, che erano così diverse da quelle che avevo immaginato!

Questo perché per me il romanzo è il romanzo. Qualunque cosa ci si ricami intorno è un’altra cosa, un’altra opera, che mi riguarda solo all’1%.

In un piccolo film lavorano 100 persone, e io sono uno di quei 100, e non ha senso imporre il mio punto di vista su come girare una scena se io non ho mai tenuto una telecamera in mano.

La lezione che ho tratto è che io devo scrivere. Sia nel senso che fa un certo effetto vedere una troupe che per un mese prende sul serio quello che per me era soltanto uno scherzo su carta scritto in una settimana; sia nel senso che non mi va di essere coinvolto in cose. Scrivere è il mio modo per isolarmi dal mondo, e di coltivare me stesso. Non è una ricerca di successo. Pertanto qualcuno vuole fare un film o un’opera teatrale da un mio libro? Bene, ma io non uscirò di casa per andare a sfilare sul set.

Questa è una domanda un po’ stupida, che fanno sempre agli editori. Ma sono genuinamente curioso: qual è il libro che hai pubblicato di cui vai più orgoglioso? E quello che ti stai ancora mangiando le mani per non averlo pubblicato?

Non so se sono più orgoglioso di aver pubblicato Sharaz-de di Sergio Toppi oppure Eccetto Topolino, quel saggio sui fumetti al tempo del fascismo che è valso agli autori tante pagine intere dei quotidiani italiani nonché la frase dell’Unità: “Oggi nasce la critica di livello universitario del fumetto”.

Quel che c’è di bello è che a settembre pubblicheremo la seconda edizione, molto ampliata, di questo saggio, e ne vado molto fiero.

Un piccolo editore ha pochi soldi all’inizio, e mi sono visto sfuggire dalle mani mille volumi che poi ho visto pubblicati da altri. Ma tendo a non rimuginare su quel che non è stato! Non coltivo dentro di me sentimenti negativi, mi rallenterebbero molto. Rimpiangere, o odiare, è assai faticoso.

Non ci posso credere che ti sconsigliavano di pubblicare Toppi…!

Beh, visto con gli occhi di oggi, con Edizioni NPE “Casa editrice del fumetto d’autore” ha senso. Ma all’epoca, se ricordi, io pubblicavo robe a casaccio e non avevo una identità definita. Poi un giorno dico al caporedattore: “Bene, allora compriamo i diritti di tutto Sergio Toppi, tutto Dino Battaglia, tutto Attilio Micheluzzi e da oggi siamo al casa editrice del fumetto d’autore”. È stata una sterzata che nessuno si aspettava, e mi è costata così tanto in termini di investimento che tuttora sto finendo pagare le rate!

Hai rilevato «Scuola di Fumetto»: una mossa intelligente. Eppure sembrava non interessare a nessuno. A un anno di distanza (o è di più?) ritieni che l’investimento sia stato fruttuoso, se non in termini economici, in altri termini?

Vivo un po’ fuori dal mondo, e non sapevo nemmeno che avesse chiuso. Quando l’ho scoperto non ho potuto sopportarlo. Ricordo che Laura Scarpa recensiva su quella rivista i miei primi libretti.

Appena l’ho saputo l’ho chiamata e nell’arco di un’ora ci eravamo accordati.

L’investimento è stato più che fruttuoso: sono rientrato dei costi già nel primo anno e ho imparato come funziona il mondo delle edicole (per lo meno a questo piccolo piccolo livello, per il momento).

L’editoria è uno dei settori meno innovativi e innovati che esistono. Quali sono le innovazioni necessarie subito, e quali vorresti adottare?

Non saprei cosa dirti perché io imparo ogni settimana una nuova cosa che sconvolge il modo in cui avevo visto l’editoria fino alla settimana prima. E mi dico: “Ma che fesso sono stato!”.

Sono una testa calda e quando ho una idea la metto in pratica. Quasi sempre le persone mi dicono “sei pazzo, prendi i diritti di tutto Sergio Toppi? Ma nessuno lo ricomprerà!”, così come prima mi dicevano “sei pazzo, fondi una casa editrice! Nella cultura nessuno guadagna!”.

Non saprei dirti quali innovazioni vorrei, perché tutto quello che vorrei lo sto già facendo. Vedi IVVI Editore: avresti mai pensato che saltava fuori un editore che dicesse “pubblico tutto, in veri libri, in tutte le librerie”? Direi che per questo periodo di quarantena ho innovato abbastanza. Lo dico auto-ironicamente, eh! Poi bisognerà vedere se funziona!

L’editoria periodica è morta e sepolta? Oppure no? Tu ci hai investito, come vedi il settore? Si può salvare?

Ho paura che la vendita periodica stia effettivamente planando, ma non sta precipitando. Secondo me si è troppo frettolosi a definirla morta. C’è ancora tanto da fare.

Fintanto che qualcuno avrà buone idee, le dirà in modo coerente e costante, investirà su un marchio e non starà a sentire gli umori volatili delle vendite ma soltanto la direzione giusta verso la sua stella polare, secondo me le copie si venderanno.

Consigli per giovani autori e, non ci scordiamo, consigli per giovani editori.

Io a un giovane autore consiglierei solo due cose. La prima è di scrivere di più. Molti di loro chiacchierano tanto, da editore ne ho conosciuti a migliaia. E non scrivono mai. Se non scrivi almeno un’ora al giorno per tutta la tua vita allora lascia stare. Una pausa di un mese tra un’opera e un’altra ci sta bene. Ma scrivere dieci ore all’anno e parlarne mille non è ciò che fa uno scrittore. E non bisogna affondare nei progetti. Hai in mente un romanzo, una sceneggiatura? Scrivila, e vai oltre. E parla di meno: tutto quello che hai da dire lo devi dire sulle pagine. Da noi si dice “se chiacchieri davanti al forno perdi il pane”.

La seconda è di capire che – per quanto terribile sia – il mondo è cambiato e oggi bisogna essere i promotori di se stessi. Non arriverà un deus ex machina dall’alto a dirti “bene, sei un grande autore e ti farò vendere un milione di copie!”. Che sia capitato a qualcuno non delinea una legge scientifica. Siamo noi a doverci far conoscere. Non vi va di farlo? Allora ahimè probabilmente non vivrete mai di scrittura. È triste, ma è un fatto.

Io ho una paginetta facebook ormai seguita da 60mila persone. Quando pubblico un mio libro e lo dico vendo 100 copie il primo giorno. Questo mi consente di essere uno scrittore. E poi tutte queste persone – a modo loro – mi capiscono e mi stanno vicino.

A un giovane editore direi: fatti bene i conti. Prima di partire con qualsiasi cosa, spendi dieci ore in più ad analizzare tutto, su carta, coi numeretti. Troppe volte io non ho fatto bene i conti e, dopo vent’anni, mi sto ancora leccando ferite che non rimarginano. Fai di meno, fallo bene, certo sbaglia, ma poi impara e ricordati che nessuno ti costringe a insistere se una cosa non funziona.

Mi scuso per questa intervista che a rileggerla ora mi pare un po’ presuntuosetta, Dario, non so che mi è preso!

Nicola Pesce

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